Articolo a cura di Andrea Contorni R.
Un imperatore da rivalutare?
Claudio Cesare Augusto Germanico Nerone. Questo losco e perverso individuo, ultimo regnante della gloriosa dinastia giulio-claudia, era figlio di un tale Enobarbo, (di nome faceva Lucio Domizio), e di Agrippina, figlia del rimpianto Germanico. Claudio lo zoppo, l'imperatore che si circondava di liberti, l'instancabile amministratore e il "gran conquistatore" della Britannia lo adottò, rendendolo il suo successore. Proprio di Nerone vorrei parlare pur non rendendolo affatto il protagonista assoluto di questo articolo. La sua figura subisce nell'ultimo decennio un'attenta rivalutazione storica che tende a mitigare quanto di brutto si è sempre detto di questo imperatore. Folle, tiranno, assassino, incendiario, matricida, perverso, persecutore di cristiani e chi più ne ha, più ne metta. Molte delle sue colpe furono commesse in linea di massima da tanti altri imperatori romani, persino tralasciando i soliti nomi quali Caligola e Commodo. Ritengo che da un lato Tacito, dall'altro diversi storici cristiani, abbiano esasperato la figura di Nerone, regalandone ai posteri un ritratto davvero nefasto. Nerone fu un regnante che seppe conquistarsi la plebe con panem et circenses e con alcune leggi popolari. Di conseguenza andò in odio alla classe senatoriale e a quella degli equites. Amava suonare la cetra ed esibirsi come teatrante e atleta con risultati imbarazzanti. Indirizzò la corte verso quello sfarzo tipicamente orientale in barba ai costumi morigerati dei romani di un tempo. Dimostrò persino eccellenze amministrative. Ma il grosso neo fu che andò incontro a un graduale processo di perversione che seppur non lo rese un abominio, evidenziò tutti i difetti di un uomo estremamente debole in balia delle cattive compagnie. E pensare che può essere annoverato persino tra gli imperatori più vincenti della storia di Roma, con le vittoriose campagne di Armenia, di Britannia (contro Budicca) e in Palestina (rivolta giudaica) fermo restando che tra una suonata e una poesia, Nerone non trovò mai il tempo e neppure il desiderio di scendere in campo tra i suoi soldati. Si limitò a nominare noiosamente quel generale piuttosto che un altro. La Dea bendata spesso arride agli stolti e a coloro che non meriterebbero affatto la buona sorte. Il "folle" imperatore si ritrovò in scuderia certi Vespasiano, Tito, Corbulone, Svetonio Paolino, tra i più abili condottieri di uomini della Storia. Il crollo psichico dell'Enobarbo avvenne in seguito all'uscita di scena di due personaggi chiave, messi accanto al figlio da Agrippina; Burro, un marziale prefetto del pretorio, romano d'altri tempi, e Seneca, il grande erudito che guidò i passi del giovane Nerone fino al 60 d.C. circa. I due che avevano assistito senza proferir parola all'assassinio dell'ingombrante imperatrice madre (59), forse per ordine del figlio, forse di Poppea, futura moglie dello stesso, videro cambiare le carte in tavola con la comparsa a corte di un tale Tigellino.
L'avvento di un uomo perverso
Tigellino era un uomo dalla moralità raccapricciante, di una malvagità senza eguali. Faceva parte del circolo degli amici intimi di Nerone, un’allegra combriccola di bricconi e nullafacenti dedita ai divertimenti più assurdi e perversi. Si narra di notti brave passate nella Suburra in incognito, ubriachi come zucche, a menar le mani peggio di scaricatori di porto. Burro fu liquidato nel 62 (forse avvelenato), Seneca fu invitato ad andare in pensione. Tigellino aveva fatto fortuna gestendo ippodromi nel Meridione. Nerone lo mise a capo del corpo dei vigili. In seguito alla "defezione" del vecchio Burro, ascese alla carica di prefetto del pretorio. Divenne l'uomo più potente di Roma, dopo l'imperatore. É davvero incredibile quale insieme di contraddizioni sia stato questo bizzarro regnante, tra l’ideale di grecizzare Roma, l’amore per le arti sceniche, gli atti di grande generosità, l’attenzione per il popolino da un lato, il degrado morale, la presunta ma probabile commissione del matricidio, una condotta di vita debosciata e propensa ai vizi, la psicosi da congiura, instillata poco alla volta dal Tigellino, ben prima della congiura che andrò a descrivere. Il tutto comporterà un vortice di uccisioni tali da ricordare le purghe sillane. E in questo macabro compito, Tigellino si rilevò un esecutore feroce e senza remore.
Un gruppo di improbabili tirannicidi
Se non fossero morte tante persone, questo goffo tentativo di eliminare l’Enobarbo sembrerebbe più una commedia teatrale che una congiura vera e propria. Correva l’anno 65 d.C.; alla Storia passò come la Congiura di Pisone, dal nome del presunto capo della combriccola. Gaio Calpurnio Pisone era un affabile senatore romano, ricchissimo, adorato da nobili e plebei. Un uomo dotato di bellezza e intelletto, il cui salotto culturale era frequentato dalla migliore aristocrazia dell’Urbe. Egli avrebbe dovuto assumere la porpora dopo l’uccisione di Nerone, comprando il favore della guardia pretoriana e facendosi accettare dall’esercito. Il suo neo in tanta manifesta beltà, fu la totale mancanza di polso. Questa congiura fu un prodotto delle classi senatoriale ed equestre. I motivi che legarono insieme tante persone nell'intento comune furono molteplici. Facendo un po' di ordine grazie al resoconto di Tacito, troviamo Fenio Rufo, un nobilastro ex amante di Agrippina, che era stato nominato prefetto del pretorio insieme al tremendo Tigellino tanto per far star zitto il Senato e che veniva di continuo osteggiato dal diabolico collega. Segue il tribuno della coorte pretoria Subrio Flavo in compagnia del centurione Sulpicio Aspro. Ecco il famoso poeta Lucano che odiava Nerone a causa della gelosia che l'imperatore soffriva nei suoi confronti. Poi Afranio Quinziano, un uomo turpe e corrotto che lamentava offese da parte dell'Enobarbo. Infine una frotta di cavalieri (Senecione, Proculo, Ararico, Antonio Natale, Marcio Festo etc etc), che temeva la politica popolare del Cesare, e immancabili, gli idealisti restauratori della Repubblica tra cui Flavio Scevino e Plauzio Laterano. Nerone era mal sopportato dagli austeri senatori a causa dei suoi comportamenti non consoni alla porpora imperiale. Ad aggravare tale situazione ci si era messo Tigellino, l'abietto di umilissime origini che la faceva da padrone a corte e che giorno dopo giorno aumentava il suo carisma decisionale sull'Enobarbo. Questi era ormai ridotto a una gelatina capricciosa che vedeva attentatori alla propria vita anche nelle scimmie ammaestrate che si esibivano al suo cospetto. Nel 64 dopo il terribile incendio che aveva distrutto mezza Roma, si era inoltre beccato anche l'infamante accusa di aver deciso lui stesso di appiccar le fiamme. La costruzione dell'esagerata Domus Aurea altro non fece che alimentare tale diceria. Il 65 era per i congiurati l'anno buono per un sano e giusto tirannicidio.
La congiura delle comari
I cardini di una buona congiura sono la segretezza, il silenzio, le frasi sussurrate, gli incontri col favore delle tenebre, il sotterfugio. In questo caso avvenne tutto e il contrario di tutto. Tra mille chiacchiere, piani e timori, la congiura andava talmente per le lunghe che una cortigiana liberta di nome Epicari, (non si è mai saputo per quale motivo), venuta a conoscenza del piano, si mise a redarguire i congiurati di viltà. Dinanzi a occhi bassi e frasi a mezza bocca, decise di rivolgersi a Volusio Proculo, comandante della flotta del Miseno, già coinvolto nell'assassinio di Agrippina. Questo tizio lamentava una scarsa riconoscenza da parte di Nerone, insomma l'ennesimo campione di lealtà. Venuto a conoscenza del segreto, Proculo fece due calcoli di comodo. Incontrò Tigellino e gli spifferò tutto. L'Enobarbo ordinò l'immediata cattura di Epicari con conseguenti torture e percosse... ella però non proferì parola. A questo punto bisognava affrettare i tempi. Nerone doveva essere eliminato durante i ludi circensi. Plauzio Laterano si sarebbe buttato ai piedi dell'imperatore per una supplica, prendendolo in realtà per le ginocchia e scaraventandolo a terra. A quel punto il repubblicano Scevino, pugnale alla mano, lo avrebbe trafitto. Subito dopo Pisone si sarebbe recato al Castro Pretorio dove Fenio e i pretoriani lo avrebbero reso imperatore. Mai piano fu più malriuscito di questo. Ma il peggio doveva ancora avvenire. La tragedia iniziò il giorno stesso della vigilia allorché un esaltato Scevino, invece di farsi gli affari suoi, decise di recitare la parte del Bruto, uccisore di Cesare. Chiuse il testamento e ordinò al suo liberto di fiducia (Milico) di affilare al meglio la lama di un pugnale sacro trafugato da un tempio. La Storia raccontava che Bruto stava con Cassio e giustamente Scevino si ritrovò con Natale che estasiato dalla scena della consegna del pugnale perpetrata dal collega, lo imitò a sua volta con ancor più plateale enfasi. La sera stessa, non pago, Natale organizzò persino un banchetto, affrancò schiavi, distribuì lasciti e regali, ordinando infine ai suoi liberti di preparare fasce e unguenti per curare eventuali ferite. La pantomima finì alle orecchie di Tigellino e di Nerone. Fu il "liberto fedele" Milico a riferirgliela la mattina successiva.
Una fine terribile e senza gloria
Scevino e Natale vennero arrestati, seppur in un primo momento fossero quasi riusciti a ingarbugliare le acque. Dinanzi al torturatore, Natale abbandonò i panni del congiurato. Chiese di parlare con Tigellino. Avrebbe spifferato tutto a patto di aver salva la vita. Venne fuori il nome di Pisone, poi quello di Seneca che forse era estraneo al tutto e se ne stava in pensione da anni, quello di Lucano che cercò di salvarsi denunciando la vecchia madre e via via tutti gli altri. Roma fu messa a ferro e fuoco con Fenio Rufo, ancora prefetto del pretorio che da congiurato era passato lestamente dalla parte dell'Enobarbo, arrestando e ammazzando i vecchi complici. Fintanto che non fu fatto anche il suo nome. Pisone si tagliò le vene recitando un elogio a Nerone. Seneca se ne andò nei Campi Elisi filosofando. Il tribuno Subrio Flavo e il centurione Sulpicio Aspro furono decapitati dopo aver urlato tutto il loro disprezzo. Fenio Rufo morì invece piangendo. Il grande poeta Lucano se ne andò recitando i suoi versi, mentre Scevino perso nei suoi eroi repubblicani dimostrò una dignità senza eguali. Antonio Natale, da buon pentito e delatore, fu invece ricompensato insieme al liberto Milico. Ospiti del traghetto di Caronte furono uomini e donne, completamente innocenti, che erano sempre stati nelle antipatie della corte. La fine della Congiura di Pisone, determinò l'apoteosi del potere di Tigellino che assurse a salvatore unico della porpora imperiale. Da quel dannato giorno un sempre più labile Nerone vide nel turpe prefetto l'unico in grado di garantirgli un'esistenza serena, stesso errore che anni prima aveva compiuto Tiberio con Seiano, il suo prefetto del pretorio. Mentre il figlioccio di Augusto era riuscito ad aprire gli occhi, tornando in sé, l'Enobarbo, portato sull'orlo del precipizio dal pressante "amico" decise di buttarsi nel baratro divenendo un buffone nelle mani di un pazzo omicida. Fu così che anche il generale Corbulone, come il grande scrittore Petronio, autore del Satyricon furono costretti al suicidio. Stessa sorte toccò al coraggioso senatore Trasea Peto che per anni, in barba all'etichetta, aveva criticato Nerone senza timori di sorta. Nel frattempo la liberta Epicari, stremata dalle torture, con le gambe rotte e con ferite in tutto il corpo, aveva deciso di strozzarsi con il laccio di quel che rimaneva della sua veste. Lei i nomi dei complici non li aveva mai fatti... quel lasso di tempo in cui la coraggiosa cortigiana aveva taciuto sopportando stoicamente dolore e privazioni, avrebbe permesso a Calpurnio Pisone di presentarsi alle coorti pretoriane, pagarle con moneta sonante e farsi acclamare imperatore per poi levar di mezzo Nerone e Tigellino. Ma al nobile, raffinato ed amatissimo dai quirites era mancato il coraggio nel momento stesso in cui bisognava cambiare la Storia.. .
Bibliografia, sitografia e immagini
- "Fonti per la Storia Romana", Giovanni Geraci e Arnaldo Marcone. Le Monnier Università.
- "Storia Romana", Giovanni Geraci e Arnaldo Marcone. Le Monnier Università.
- "Il libro nero di Roma Antica", Giuseppe Antonelli. Newton Compton Editori.
- "Nerone", Roberto Gervaso. Rusconi Editore.
- "Storia di Roma", Indro Montanelli. Edizioni Bur-Rizzoli.
- Immagini e fotografie di pubblico dominio, ove non diversamente specificato. Fonte Wikipedia.
Data di pubblicazione articolo: 18 giugno 2019
Busto dell'imperatore romano Nerone, la vittima designata della Congiura di Pisone.
"Nerone a Baia" di Jan Styka (1858-1925).
Nerone visita le rovine di Roma in fiamme nel dipinto di Karl Theodor von Piloty (1826-1886).
"Il rimorso dell'imperatore Nerone dopo l'assassinio di sua madre" di John William Waterhouse (1849-1917).
"La morte di Seneca" di Joseph-Noël Sylvestre (1847-1926).
"La morte di Seneca" di Luca Giordano (1634-1705).
"La morte di Nerone" di Vasiliy Smirnov (1905-1979).
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