Articolo a cura di Andrea Contorni R.
Un mito in comune: Alessandro Magno
Ogni condottiero dell'antichità ellenico-romana ha tratto ispirazione dalle gesta di Alessandro Magno. Cosa nota, quasi scontata dato che tutti i rampolli dell'aristocrazia, destinati alla carriera militare e poi a quella politica, crescevano con il mito del Macedone. I precettori ne narravano le imprese, innalzandole a fulgidi esempi di virtù e di valore individuale. Ogni giovane romano sognava di condurre un giorno il proprio esercito ai confini del mondo e aspirava ad assomigliare a quell'Alessandro che appariva del tutto simile a una divinità, con tanto di parentela col Pelide Achille. Pirro, re dell'Epiro tra il 306 e 272 a .C., colui che tentò di arrestare l'avanzata romana nel Meridione della penisola italica, appartenava alla casa degli Eacidi. Era questa un'antichissima dinastia che, si diceva, discendesse da Neottolemo, figlio di Achille, pertanto imparentata agli Argeadi e quindi ad Alessandro Magno. Lo sfortunato Filippo V di Macedonia (238-179 a .C.), alleato di Annibale e ultimo regnante di Macedonia, sembrava la reincarnazione dell'antenato per la somiglianza fisica, per l'abilità nel cavalcare e per l'ardore in battaglia. Egli amava indossare un elmo con pennacchio del tutto simile a quello che fu di Alessandro. Venendo al mondo romano, verso la fine della Repubblica troviamo Pompeo Magno (106-48 a .C.), talmente ossessionato dal mito, da arricciarsi i capelli similmente a un busto marmoreo del figlio di Filippo II. Il ricco Crasso (114-53 a .C.) pensò di emulare con le sue legioni la marcia inesorabile delle falangi macedoni attraverso l'Asia. Gli esiti furono tragici. Il sogno di Crasso si infranse a Carre nell'attuale Turchia. Lo stesso Cesare e persino personaggi minori quali Lucullo e i suoi nemici Mitridate e Tigrane si atteggiavano a novelli "Alessandri" appena conseguivano una vittoria sul campo. Gli Scipioni andarono oltre. In barba alla fiera tradizione di popolo rude e contadino, tutto zappa e gladio, gli appartenenti a questa gens si fecero promotori a Roma, nel corso del II secolo a.C., di un vero e proprio movimento culturale che Cicerone definì a posteriori come "Circolo degli Scipioni". Vi aderirono diversi esponenti della nobilitas della nuova generazione, (la vecchia era stata quasi del tutto spazzata via da Annibale e soci), i quali si misero a passare le giornate tra discorsi filosofici e culturali, coltivando interessi per la letteratura e le arti visive, invitando alla propria mensa eruditi e uomini di pensiero provenienti dalle regioni che venivano considerate patria assoluta del sapere. Parliamo della Grecia e di tutti i territori che subirono l'influenza dell'Ellenismo. Sarebbe interessante conoscere con certezza se Alessandro Magno, mentre combatteva e fondava città, avesse concepito a priori il "progetto ellenismo" che si sviluppò alla sua morte.
Il carattere universale dell'Ellenismo
Sotto il Macedone, l'ideale fusione di culture diverse fu incentivata da una conquista militare che non prevedeva la distruzione di massa (salvo rari casi), ma l'integrazione di sistemi di governo, religioni e tradizioni. La lingua greca divenne il linguaggio universale usato nel commercio, nelle contrattazioni e nella retorica, parlato dalla Grecia all'India. Avvenne una sorta di passaggio dal concetto "occidentale" di polis, inteso come mondo chiuso tra quattro mura, al concetto "orientale" di grande monarchia retta da sovrani illuminati dalla potenza divina o divinità essi stessi. La figura del cittadino che si identificava in tutto e per tutto con la città-stato di cui faceva parte e per la quale era chiamato a combattere, fu soppiantata da quella del suddito, più omologato in un unico calderone collettivo. In pratica se l'Egitto e la Battria facevano parte dello stesso impero, sia l'egiziano che il battriano erano sudditi di quell'unico re che li governava. Da un lato si favorì l'accettazione reciproca di culture diverse, dall'altro si mortificò il concetto stesso di appartenenza a una unità territoriale. Per quanto semplicistico, questo passo rende la rivoluzione sociale scaturita dalle conquiste militari di Alessandro. I regni dei Successori con le tre grandi dinastie dei Tolomei in Egitto, degli Antigonidi in Macedonia e dei Seleucidi in Oriente, grandiosi nella loro magnificenza, ma terribilmente deboli dal punto di vista organizzativo-militare, rappresentarono le culle della cultura ellenica che si diffuse fino ai quattro angoli del mondo conosciuto. Un tale roboante mutamento della società, portò alla nascita di importanti movimenti filosofici, individuali e pragmatici. Dall'epicureismo allo scetticismo, fino allo stoicismo. Tutte filosofie incentrate sulla figura dell'uomo e sulla ricerca di un'esistenza positiva. L'uomo dell'Ellenismo è il cittadino del mondo, il cosmopolita, i cui interessi non sono più radicati nell'orto di casa ma spaziano, confrontandosi con le esistenze e gli interessi di migliaia di individui. La ristrettezza culturale della Grecia Classica è dunque superata. Si torna al discorso del cittadino e del suddito. Ovvio che mutò anche il concetto di partecipazione individuale alla vita politica dello Stato. Il cittadino ateniese del VI-V secolo a.C. poteva viverla in prima persona, il suddito ellenistico subiva le decisioni della casata regnante. La religione, inoltre, non fu più in grado di fornire tutte le risposte. Il filosofo, per mezzo di ragionamenti (spesso davvero strampalati), si.
La civiltà romana, rozza, pratica e contadina, dall'indole fortemente guerriera e dalle radicate tradizioni poteva resistere al fascino dell'ellenismo? Non troppo e infatti dalla metà del II secolo a.C., finita la tragedia della Seconda Guerra Punica, grazie agli Scipioni appunto, l'ellenismo si propagò a macchia d'olio nella Roma Repubblicana, resa più forte e sicura di sé proprio grazie alla vittoria su Annibale. L'epopea della nuova potenza del Mediterraneo era appena agli inizi. Lo stesso Scipione "Africano" manifestò fin da giovinetto una passione incondizionata per la cultura ellenistica tanto da inimicarsi il gruppo che faceva capo a Marco Porcio Catone, (nel 184 a .C. divenne famoso come "Il Censore"), un homo novus, cresciuto in quel di Tusculum secondo le antiche tradizioni contadine latine. Egli ascese alle massime cariche politiche grazie a una innata forza di volontà che gli permise di distinguersi anche sui campi di battaglia. Questi apprezzava la cultura greca classica ma detestava l'ellenismo, capace secondo lui di fiaccare i morigerati costumi romani, esaltando l'individuo e ledendo al contrario la collettività e il benessere della comunità. A posteriori forse non aveva tutti i torti, ma come si sa, lottare contro l'evoluzione dei tempi non è mai impresa facile. Comunque, questo gruppo di bacchettoni se ne rimase tranquillo fintanto che gli Scipioni furono utili alla causa, poi come buona tradizione romana insegna, passata la necessità, calarono la mannaia. Quella che partì fu proprio la testa dell'Africano che morì in solitaria nella sua villa di Liternum a soli 52 anni. Era il 183 a .C..
Corsi e ricorsi storici
Quanto descritto poc'anzi, serve a farci comprendere di quale tempra fosse dotato il nostro Publio Cornelio. Un uomo dalla fervida apertura mentale, capace di andare contro gli schemi ed ergersi a promotore di quel rinnovamento culturale che la "vecchia" Roma necessitava per la sua stessa sopravvivenza. Andiamo con ordine. Che Scipione futuro "Africano" fosse un predestinato non corre dubbio alcuno. Era il rampollo della più potente e famosa gens romana, quella Cornelia, che faceva risalire le proprie origini alle prime cento gentes che misero piede sul Campidoglio nella Roma post Romolo. Tale gens contò tra il III e il II secolo a.C., nel ramo patrizio degli Scipioni, ben venti consoli e diversi altri componenti impiegati in cariche politiche e militari minori. Chiunque fosse giunto a Roma in quel periodo e avesse chiesto in giro chi si distinguesse tra i cittadini più eminenti dell'Urbe, avrebbe ricevuto in risposta il nome di qualche Cornelio Scipione. Figurarsi inoltre che il nome "Scipione", derivava da scipio, ovvero bastone. La leggenda narrava che uno dei primi capi della famiglia, ormai vecchio e cieco, si poggiasse per camminare al figlio, come si faceva con un bastone. Nel settembre dell'anno 218 a .C. sul Ticino, i romani comandati da Publio Cornelio Scipione padre andarono incontro alla prima sconfitta per opera del Barcide Annibale. La battaglia fu poco più di una scaramuccia tra cavallerie e qualche contingente di fanteria leggera, ma lo Scipione padre preso in mezzo ai reparti nemici fu disarcionato da un colpo di spada. Ferito gravemente stava per soccombere quando il figlio (il futuro Africano) lo soccorse, irrompendo tra i cartaginesi con i pochi cavalieri della guardia personale. Sceso da cavallo, sostenne il padre come un bastone, continuando a menare colpi a destra e a manca fintanto che non si aprì un varco nel quale riparare in ritirata. Nella piazzaforte di Piacenza, l'appena diciassettenne Scipione rimandò indietro la decorazione militare assegnategli per l'atto di coraggio. "L'atto che ho compiuto si ricompensa da se", fu la sua risposta. La guerra incalzava mentre il ragazzo se ne tornava a Roma con la fama di giovane coraggioso e di valore.
Il segno degli Dèi
Scipione fin da adolescente ebbe un rapporto con gli Dèi molto particolare. Si vociferava nella Roma dei pettegoli e delle comari che il ragazzetto non fosse normale per la sua età. Se nelle ore centrali della giornata era di compagnia e ben disposto ai rapporti umani, all'alba e al tramonto diventava taciturno e solitario. Lo si vedeva spesso, a notte fonda, aggirarsi nei pressi del Campidoglio o sostare dinanzi a qualche tempio in meditazione. Un'abitudine che conservò inalterata in età adulta, alimentando la fama di possedere la facoltà di parlare con gli Dèi. I più spinti sostenevano che la madre Pomponia si fosse accoppiata spesso e volentieri con un serpente che altro non era che l'incarnazione animalesca di Giove. Altri andavano raccontando che i cani randagi che gironzolavano sul colle, pronti ad abbaiare a chiunque si avvicinasse, non lo facessero con Scipione. Insomma, tutti vedevano in Scipione, la stella di Alessandro Magno, il segno degli predestinati. La battaglia del Ticino (218 a.C.) ne fu la conferma. Polibio racconta: «[...] suo padre gli aveva affidato il comando di una turma di cavalieri scelti, destinati a garantire la sicurezza personale del console; egli [Publio], quando nel corso della battaglia vide che suo padre, insieme a soli due o tre cavalieri, era stato circondato dal nemico ed aveva subito pericolose ferite, inizialmente provò ad incitare gli uomini che aveva vicino a sé affinché portassero soccorso al padre, quando vide che questi, davanti al grande numero di nemici che circondavano suo padre, erano titubanti e impauriti, si racconta che egli, con incredibile audacia, si lanciò da solo alla carica contro i nemici che avevano accerchiato il padre. A quel punto anche gli altri cavalieri si sentirono obbligati ad attaccare. I nemici, spaventati, si diedero alla fuga e Publio Scipione [padre], salvato in modo tanto insperato, fu il primo a salutare alla presenza di tutti il proprio figlio come suo salvatore.» Il nostro eroe inoltre non fece mai nulla per smentire le dicerie. Anzi, a chi gli chiedeva lumi al riguardo, rispondeva evasivo, a mezza bocca, abbassava lo sguardo o cambiava discorso. Non affermava ma non negava neppure. Nel 209 a .C. durante l'assedio di Cartagena, egli fece passare il più naturale degli eventi come un segno divino in suo favore. I legionari ne rimasero talmente stupiti che nessuno ebbe più dubbi: Scipione era benvoluto dagli Dèi e poteva permettersi di chiedere favori che venivano esauditi al momento. Ci narra lo storico Tito Livio: «Scipione era ammirevole non solo per le reali doti ma anche per il fatto di ostentarle con arte singolare, presentando la maggior parte delle sue azioni alla gente come ispirate da visioni notturne o suggerite da avvertimenti divini.»
Insomma tra le tante qualità, sapeva anche comportarsi con arguzia. Torniamo a Cartagena. Situata sulla costa sud-orientale della penisola iberica, la città era il centro nevralgico cartaginese in Spagna. Al suo porto giungevano le flotte da Cartagine. Dai suoi ampi magazzini partivano i rifornimenti per gli eserciti che combattevano sul suolo ispanico. Scipione aveva ottenuto dopo immani dispute in Senato, i mandata proconsolari per dirigere le legioni nella campagna iberica. Li aveva pretesi in quanto sia il padre che lo zio erano morti nel 211 a .C. rispettivamente nelle battaglie di Baetis Superiore e di Ilorci nel tentativo di contrastare le forze comandate dai fratelli di Annibale. I due vecchi Scipioni si erano dati un gran da fare, riuscendo a evitare che nuove truppe raggiungessero il Barcide in Italia. Ora toccava al terzo chiudere quel fronte di guerra. Liberata Sagunto, il giovane Scipione puntò direttamente Cartagena la quale era difesa sul lato nord da una sorta di palude molto profonda. Seppe da un pescatore locale che in un giorno specifico, in un determinato lasso di tempo, la laguna, essendo collegata al mare, ne subiva la bassa marea, divenendo praticabile. Egli ordinò di attaccare la porta principale via terra e il porto dal mare. In precedenza si era recato con 500 uomini ai bordi della laguna. Quando il livello dell'acqua iniziò a diminuire, Scipione invocò solennemente l'aiuto di Nettuno che si "concretizzò" subito dopo con la bassa marea, tra lo stupore generale. I romani scavalcarono così le mura, non difese su quel lato, conquistando la città.
In nome della Repubblica
Negli anni tra il 218 e il 216 a .C., Roma andò incontro ad alcune tra le più terribili sconfitte della sua Storia millenaria. Le battaglie del Trebbia, del Trasimeno e di Canne segnarono una crisi talmente profonda da far presagire una imminente caduta dell'Urbe, per mano di Annibale. Il Barcide, come sappiamo, non seppe sfruttare l'enorme vantaggio delle sue vittorie. Nel campo opposto, la grande determinazione romana alimentò una rimonta leggendaria. Chi diede il via a tale impresa fu Scipione l'Africano. Coinvolto come tribuno nella disfatta di Canne nel 217 a .C. fu tra i 10.000 superstiti che ripararono nell'accampamento romano. Da qui, mentre la maggiore parte dei legionari si arrendeva, ne guidò quattromila fino a Canosa. Dinanzi alle rimostranze degli altri tribuni che caldeggiavano la fuga in qualche stato amico confinante, egli sguainò la spada giurando sul proprio onore di non abbandonare la Repubblica e minacciando di uccidere chiunque non avesse pronunciato lo stesso giuramento. Vuoi per il risveglio del sopito onore di cittadini romani, vuoi per il gladio puntato alla gola, tutti lo seguirono. Da qui mi ricongiungo alla presa di Cartagena, descritta poc'anzi (209 a .C.) e alle successive battaglie di Baecula (208 a .C.) e di Ilipa (206 a .C.), nelle quali gli eserciti di Asdrubale Barca prima e di Asdrubale Giscone poi, vennero spazzati via, determinando la sottomissione della Spagna a Roma.
"La clemenza di Scipione" nel dipinto di Nicolas Poussin datato 1640, conservato al Museo Puskin delle Belle Arti di Mosca.
Coraggio e consapevolezza
La personalità di Scipione è di sicuro complessa. Era un uomo che sapeva di valere e di rappresentare una risorsa fondamentale per la sopravvivenza di Roma. Egli fu da subito consapevole di quanto le tattiche e le strategie romane in guerra fossero superate rispetto a quelle di Annibale. O si faceva come Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, evitando la battaglia in campo aperto oppure si andava incontro a sconfitte devastanti seppur i numeri degli effettivi fossero stati sempre dalla parte romana. Questo perché la tattica di battaglia romana era sempre la stessa da secoli: le truppe erano disposte su tre ordini a scacchiera. Prima i "giovani" hastati, a seguire i più esperti principes, infine la terza linea formata da triarii, lancieri veterani di mille battaglie. Dinanzi alle tre schiere suddette agivano i velites, schermagliatori armati alla leggera. Ai lati muovevano le cavallerie, spesso scarse e male addestrate. Si combatteva in un solo modo senza varianti; i fanti marciavano in avanti, i cavalieri sui fianchi dello schieramento. A Canne nel 216 a .C., Annibale attirò il centro romano in una sorta di imbuto, simulando la ritirata con le prime file di fanti celtici e avanzando a tenaglia con le falangi che dalle retrovie conquistarono i fianchi per poi convergere al centro. Nel frattempo le forti cavallerie puniche e celtiche si erano fatte beffe dei dirimpettai romani e italici. Fu una carneficina in cui perirono la maggior parte degli ufficiali romani. Durante la campagna di Spagna, Scipione si dedicò profondamente allo studio degli eserciti cartaginesi, di come muovevano in campo aperto, delle risorse a loro disposizione. Seppur fossero una brutta copia dei veterani a disposizione di Annibale, il condottiero romano tornò in Italia con la certezza di conoscere quanto bastava i soldati che avrebbe dovuto affrontare di lì a poco sul suolo africano. Comprese anche che lo schieramento romano doveva permettere un maggiore dinamismo e la possibilità di cambiare tattica in corsa. In un certo senso, egli fu il precursore delle future legioni post-mariane. Un paio di aneddoti interessanti. A Cartagena, per esempio, egli non guidò i propri uomini all'assalto, preferendo dirigere le operazioni dalle retrovie, ben protetto dagli scudi della sua guardia. A chi gli rimproverò tale comportamento, ribadì spavaldo che il compito di un generale non è combattere ma comandare, sotto intendendo che una sua caduta avrebbe comportato la disfatta delle legioni in Spagna. A Ilipa invece, notando uno sbandamento tra le prime file della sua fanteria, si gettò nella mischia, strappando lo scudo a un soldato e spingendo gli uomini ad avanzare, dando per primo l'esempio. Tutto ciò ne alimentò la fama di condottiero invincibile, la cui saggezza e forza erano diretta emanazione del volere divino. Questo pensarono anche i bellicosi capi delle tribù iberiche che gradualmente abbandonarono il campo cartaginese per passare dalla sua parte. Per tale scopo, Scipione diede fondo ad un'altro suo talento, quello diplomatico. Dopo ogni battaglia risparmiò i prigionieri spagnoli, rispedendoli alle proprie tribù. Rifiutò persino il dono di una fanciulla molto avvenente, perché figlia di un capo tribale alla quale la restituì. Dopo Baecula, Scipione ebbe tra le mani come prigioniero un tale Massiva, rivelatesi il nipote di Massinissa, il bizzoso principe numida. Lo liberò. Anni dopo, Massinissa e la sua feroce cavalleria, avrebbero cavalcato al fianco del generale romano nella vittoriosa battaglia di Zama.
"Scipione l'Africano libera Massiva" nel dipinto di Giambattista Tiepolo datato 1719-21, conservato al Walters Art Museum di Baltimosa (Stati Uniti).
Zama, la via della gloria eterna
Portare la guerra sul suolo africano. Questo fu il dictat di Scipione, eletto console per l'anno 205 a .C. a furore di popolo; il progetto, a dirla tutta, faceva parte dell'antico piano promosso dai consoli Scipione padre e Sempronio Longo nel lontano 218. Longo stazionava con due legioni in Sicilia, pronto a salpare per l'Africa, prima di essere richiamato per combattere sul suolo italico. Annibale era infatti calato nella pianura Padana. Si era preso gioco di Scipione padre sul Ticino e imperversava indisturbato nel nord della penisola. La gretta mentalità romana del tempo non concepiva una strategia a più ampio respiro. Annibale era sceso in Italia, Annibale doveva essere sconfitto in Italia. Curioso che sia stato tenuto aperto il fronte spagnolo. Riprendere in mano il piano d'invasione dell'Africa con il Barcide libero di fare i propri comodi nei dintorni di Roma, era davvero inconcepibile per l'orgoglio capitolino. I senatori si guardarono scandalizzati quando un borioso Scipione chiese le legioni per conseguire il suo piano. "Io non intendo affrontare Annibale adesso, a me interessa vincere la guerra! Quando minaccerò la sua Cartagine, sarà Annibale a voler affrontare me..." Questo il succo del discorso che entusiasmò i giovani e indignò i vecchi. Fabio Massimo il Temporeggiatore, ormai in pensione, si propose di nuovo come condottiero, pur di evitare che i propositi di Scipione avessero seguito. Ovviamente Marco Porcio Catone si schierò dalla sua parte. Ma tale era il carisma del nostro che alla fine il Senato accettò la risoluzione a mezza bocca, rifilandogli però una serie di dispetti. Niente rinforzi oltre le classiche due legioni consolari. Gli veniva concessa la facoltà di arruolare volontari e di prendersi i legionari scampati a Canne, nel frattempo esiliati con disonore in Sicilia. Nel 202 a .C. Scipione si presentò nella piana di Zama con circa 35.000 effettivi. Di contro se ne ritrovò 40.000 con un nutrito gruppetto di elefanti. Annibale, richiamato in fretta in furia in patria, si presentò all'appuntamento stanco e senza il piglio di un tempo. Dopo quell'ultima battaglia, il generale cartaginese tentò di rimanere aggrappato alla ribalta della Storia, con forza e coraggio ma la sua parabola crollò in maniera irreversibile. Scipione propose a Zama alcune importanti novità. Prima di tutto lo schieramento romano, sempre su tre ordini, non era più a scacchiera. I manipoli di astati, principi e triari erano allineati uno dietro l'altro. Si lasciavano così degli ampi corridoi nei quali andarono a finire gli elefanti di Annibale; i pachidermi non causarono danni ai capitolini anzi, bersagliati dai veliti, si voltarono indietro, travolgendo le file puniche. Massinissa, proprio il principe numidia al quale Scipione restituì anni prima il nipote Massiva, teneva l'ala destra romana con 4000 cavalieri numidi. Il suo apporto fu determinante per la vittoria finale. Non meno importante il fatto che lo schieramento romano, invece di rimanere rigido nella sua disposizione, riuscì nel corso della battaglia ad adattarsi alle mutate esigenze, evitando gli errori del passato. Annibale che tentò a Zama di riproporre la stessa strategia adottata a Canne, si ritrovò accerchiato e bersagliato alle spalle dalle cavallerie romane che sia a destra che a sinistra avevano sbaragliato i dirimpettai. I disgraziati scampati a Canne inoltre combatterono con tale foga da sorprendere lo stesso Scipione. Per quei soldati era in gioco la possibilità di riscattare il proprio onore e poter tornare a Roma. Il Barcide si salvò per miracolo.
"La carica degli elefanti a Zama", incisione del 1890 di Henri-Paul Motte.
Roma dimentica il suo salvatore
Scipione l'Africano tornò a Roma in trionfo. Negli anni successivi ottenne tutte le cariche politiche che potevano essergli tributate e la sua parola, in Senato e tra il popolo, era legge. C'è chi racconta che si comportasse come un sovrano senza trono con quella supponenza tipica del dio sceso in terra. Sta di fatto che tutti coloro che facevano capo a Catone il Censore guardavano con crescente preoccupazione l'ascesa di quell'uomo, temendo che da un momento all'altro potesse prendersi il potere supremo con le armi o con chissà quale altro mezzo. Venne la guerra contro Antioco III di Siria, un bizzarro seleucide che altra idea non ebbe che andare a mettersi contro Roma assumendo il redivivo Annibale come generale. Il mandato proconsolare venne affidato a Lucio Scipione con la consulenza del ben più famoso fratello. I due partirono per l'Asia nel 190 a .C.; pur con l'Africano malato e a letto, il fratello che divenne "l'Asiatico" annientò l'esercito di Antioco III a Magnesia, tornando a Roma con un bottino immane a fronte di un trattato di pace dalle condizioni molto miti per il riottoso regnante orientale. L'occasione era troppo ghiotta per Catone. Egli accusò i due fratelli di essersi appropriati di somme enormi per garantire la salvezza del trono di Antioco. In pratica si erano presi una sorta di tangente. Lucio (realmente colpevole) venne condannato a rimettere al Senato ogni sua carica politica e militare, il nostro Scipione (tirato in mezzo) lasciò l'aula con un gesto eclatante, ritirandosi nella sua villa di Liternum in Campania. "Ingrata patria non avrai le mie ossa", fu l'ultima frase che rivolse a Roma prima di abbandonarla per sempre.
Ora... che la Roma Repubblicana non sopportasse chiunque deteneva nelle proprie mani un potere talmente forte da sovvertire l'ordine dello Stato, è cosa nota. Se il popolo da un lato era pronto ad acclamare il gladiatore di turno come il grande generale, gli esponenti delle classi che contavano ci andavano con i piedi di piombo. Lo spettro della monarchia faceva ancora troppa paura. Scipione l'Africano se ne andò in esilio volontario, Pompeo Magno, più di un secolo dopo, visse giustificando ogni sua mossa al Senato, Cesare pagò con la vita, infine Ottaviano Augusto si prese il sommo imperium da difensore della Repubblica, lui che fu il primo romano, dai tempi dell'ultimo re deposto, ad accentrare nelle sue mani il potere assoluto. Per dire che il detto romano, tradotto per l'occasione in italiano corretto, "contenti e presi in giro" fu coniato proprio da Augusto mentre, acclamato dal Senato, giurava fedeltà agli ideali repubblicani, dando vita a quel principato che fu all'origine del futuro impero millenario.
Bibliografia e immagini
- "Storia romana", Giovanni Geraci e Arnaldo Marcone. Le Monnier Università.
- "Fonti per la Storia romana", Giovanni Geraci e Arnaldo Marcone. Le Monnier Università.
- "Le grandi battaglie di Roma Antica", Andrea Frediani. Newton & Compton Editori.
- "Cannae 216 BC: Hannibal smashes Rome's Army", Mark Healy. Osprey Publishing Ltd.
- "A Greater Than Napoleon Scipio Africanus - Scipione Africano", Sir Basil Liddel Hart. Fabbri Editore.
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Data di pubblicazione articolo: febbraio 2019
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